DALLA CORTE COSTITUZIONALE UN ULTERIORE SEGNALE IN FAVORE DEL DIRITTO ALLA REINTEGRA

Non è di certo la prima volta che la Corte Costituzionale si esprime in materia di reintegra in caso di licenziamento illegittimo: quella dello scorso 19 maggio è una pronuncia importante, che ridimensiona la portata di una legge, la n. 92 del 2012 (c.d. Legge Fornero), che la nostra Organizzazione da sempre critica aspramente.
Il principio è semplice, questa volta in materia di licenziamenti economici: per la tutela dell’art. 18 non serve che l’insussistenza del fatto sia manifesta.
Con la sentenza n. 125 del 19 maggio 2022, la Corte Costituzionale ha dichiarato che ai fini della tutela dell’articolo 18, nel testo modificato dalla riforma Fornero, il giudice non è tenuto ad accertare che l’insussistenza del fatto posto a base del licenziamento economico sia “manifesta”.
La Corte ha rilevato quanto nelle controversie in materia di licenziamenti per giustificato motivo oggettivo si è in presenza di un quadro probatorio articolato che porta ad un «aggravio irragionevole e sproporzionato» sull’andamento del processo: all’indeterminatezza del requisito si affianca una irragionevole complicazione sul fronte processuale.
Il Tribunale ordinario di Ravenna, in funzione di giudice del lavoro, ha deciso di rimettere la valutazione circa la legittimità di quella parte dell’art. 18 dello Statuto al vaglio della Corte Costituzionale. Esso prospetta, in primo luogo, il contrasto con l’art. 3 della Costituzione (riguardante i principi di eguaglianza formale e sostanziale), in ragione dell’arbitraria disparità di trattamento tra il regime applicabile al licenziamento intimato per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa (c.d. disciplinari), da un lato, e la disciplina del licenziamento determinato da un giustificato motivo oggettivo (c.d. economico), dall’altro lato. L’attuale formulazione dell’art. 18, infatti, rimetterebbe alla «scelta totalmente discrezionale» del giudice la determinazione delle tutele spettanti al lavoratore ingiustamente licenziato, senza fornire alcun «criterio serio ed omogeneo, uguale per tutti».
La disposizione è censurata in riferimento all’art. 3 della Costituzione, anche sotto un diverso profilo. Con «una regola illogica e irrazionale», essa imporrebbe al lavoratore la dimostrazione di «un fatto negativo […] e dai contorni indefiniti», che rientrerebbe «nella sfera di disponibilità anche probatoria del datore di lavoro». È evidente dalle parole del giudice una certa “carica politica”, in stretta correlazione con lo squilibrio di forza tra datore di lavoro e lavoratore che la Legge Fornero a nostro avviso ha deliberatamente ignorato: non possiamo far altro che sostenere la fondatezza del ragionamento condotto dal Giudice.
Il quale denuncia la violazione degli articoli 1, 3, 4 e 35 Cost. in quanto, il legislatore avrebbe delineato un assetto «marcatamente ed ingiustificatamente sbilanciato in favore del datore di lavoro e, di contro, ingiustificatamente penalizzante per il lavoratore». Ancora, in relazione all’art. 3 secondo comma (eguaglianza sostanziale) in quanto, nell’imporre al lavoratore l’onere della prova di «un fatto dai contorni incerti», ne limiterebbe la libertà e l’eguaglianza, in contraddizione con l’obiettivo di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese. Questo è un aspetto particolarmente rilevante: il Giudice infatti sottolinea la stretta correlazione esistente tra diritti individuali della persona sul luogo di lavoro (es. reintegra in caso di licenziamento illegittimi) e diritti politici, partecipativi e sindacali. Quest’ultimo aspetto è da sempre molto caro alla visione supportata da Unisin.
Si ravvisa poi nello specifico anche una violazione degli articoli 3 primo comma (eguaglianza formale), e 24 («La difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento») in quanto, nell’introdurre «un meccanismo privo di criteri applicativi oggettivi» e nell’onerare il lavoratore della prova di fatti estranei alla sua sfera di conoscenza, pregiudicherebbe e renderebbe comunque «eccessivamente difficoltoso l’esercizio» del suo diritto di agire in giudizio. Il lavoratore non potrebbe prevedere «le proprie chances di successo» e, dunque, non potrebbe chiedere a ragion veduta di tutelare in sede giurisdizionale i propri diritti. Anche questo è un tema di assoluta centralità: diritti difficilmente esigibili, infatti, rischiano di rimanere solamente “sulla carta”, con gravi conseguenze in termini di effettività delle regole in materia di lavoro.
Con la sentenza n. 125 del 19 maggio 2022, la Corte Costituzionale ha dichiarato che ai fini della tutela dell’articolo 18, nel testo modificato dalla riforma Fornero, il giudice non è tenuto ad accertare che l’insussistenza del fatto posto a base del licenziamento economico sia “manifesta” (settimo comma, secondo periodo). L’incostituzionalità ha colpito la sola parola “manifesta”, che precede l’espressione “insussistenza del fatto” posta a base del licenziamento per ragioni economiche, produttive e organizzative. Al fatto si deve “ricondurre ciò che attiene all’effettività e alla genuinità della scelta imprenditoriale”. Su questi aspetti il giudice è chiamato a svolgere una valutazione di mera legittimità che non può “sconfinare in un sindacato di congruità e di opportunità”.
La Corte Costituzionale ha affermato che il requisito della manifesta insussistenza è, anzitutto, indeterminato e si presta, proprio per questo, a incertezze applicative, con conseguenti disparità di trattamento. Inoltre, la sussistenza di un fatto è nozione difficile da graduare, perché evoca “un’alternativa netta, che l’accertamento del giudice è chiamato a sciogliere in termini positivi o negativi”. Il criterio della manifesta insussistenza “risulta eccentrico nell’apparato dei rimedi, usualmente incentrato sulla diversa gravità dei vizi e non su una contingenza accidentale, legata alla linearità e alla celerità dell’accertamento”.
Nelle controversie in materia di licenziamenti per giustificato motivo oggettivo si è in presenza di un quadro probatorio articolato: oltre ad accertare la sussistenza o insussistenza di un fatto le parti, e con esse il giudice, si devono impegnare “nell’ulteriore verifica della più o meno marcata graduazione dell’eventuale insussistenza”. Vi è dunque un “aggravio irragionevole e sproporzionato” sull’andamento del processo: all’indeterminatezza del requisito si affianca una irragionevole complicazione sul fronte processuale.
La Corte ha dunque individuato uno squilibrio tra i fini che il legislatore si era prefisso, consistenti in una più equa distribuzione delle tutele, attraverso decisioni più rapide e più facilmente prevedibili, e i mezzi adottati per raggiungerli.
Il tema della reintegra in caso di licenziamento illegittimo è ricorrente nelle pronunce del Giudice delle leggi, la cui azione è preziosa ma non sufficiente: per certi aspetti rende ancora più visibile la necessità di intervenire direttamente sulle disposizioni al fine di tornare a riconoscere un diritto irrinunciabile per un paese civile.
La sentenza rafforza ad ogni modo la dichiarazione congiunta delle Parti contenuta dell’accordo di rinnovo del CCNL di settore del dicembre 2019 (art. 31) e Unisin rinnova l’invito rivolto al legislatore ad intervenire attivamente sul punto:
La Segreteria Unisin Gruppo BNL