Parità di trattamento tra le persone nelle condizioni di lavoro e discriminazione Corte di Cassazione, sez. lavoro, sentenza n. 566 del 31/03/2023

Il licenziamento intimato ad un lavoratore disabile a causa del superamento del periodo di comporto per malattia con applicazione indifferenziata del medesimo criterio come per gli altri lavoratori, è nullo poiché discriminatorio in via indiretta (art. 2 Dir. CE n.78/2000 recepita dal d.lgs. n.216/2003).
Con la sentenza in commento, la Cassazione si occupa di discriminazione tra le persone nelle condizioni di lavoro, pronunciandosi sul licenziamento di un disabile per giorni di malattia superiori al periodo di comporto previsto dal CCNL.
In base alla Direttiva CE n.78/2000, relativa alla parità di trattamento in materia di occupazione e condizioni di lavoro, recepita in Italia con d.lgs. n.216/2013, ai sensi dell’art. 2, è discriminatorio il licenziamento intimato dal datore di lavoro che, a suo fondamento, senza tener conto dell’handicap, applica in modo indifferenziato, anche al lavoratore disabile, il medesimo criterio di superamento del periodo di comporto per malattia previsto nel CCNL. L’applicazione indifferenziata di questo criterio costituisce una discriminazione indiretta ed il licenziamento, oltre che illegittimo perché in violazione della normativa, è nullo, poiché discriminatorio, in quanto provoca una disparità di trattamento a danno del disabile che, a causa della fragilità insita nell’handicap, è posto in una situazione di particolare svantaggio rispetto agli altri lavoratori e, quindi, di disuguaglianza sostanziale, visto il rischio di maggiore possibilità di accumulo di giorni di assenza e di raggiungere, così, più facilmente i limiti del periodo di comporto.
Il caso e i giudizi di Primo e Secondo grado
Un disabile con capacità lavorativa ridotta al 75%, assunto a tempo indeterminato con la mansione di spazzino stradale/porta sacchi del CCNL Federambiente- Servizi Ambientali, veniva licenziato a causa del superamento del periodo di comporto per malattia previsto dall’art. 42 del CCNL (375 gg. di assenza sui 365 previsti).
Il licenziamento, pur con motivazione parzialmente diversa, era già stato dichiarato discriminatorio in primo e secondo grado di giudizio perché in violazione del principio comunitario, recepito in Italia, di parità di trattamento delle condizioni di lavoro ed il datore di lavoro era stato condannato alla riassunzione del lavoratore oltre al pagamento delle indennità a titolo di risarcimento.
Il Tribunale aveva ravvisato nel licenziamento una “discriminazione diretta” poiché il lavoratore, in ragione dell’handicap, era stato trattato meno favorevolmente di un’altra persona in situazione analoga. Risultava, infatti, la sua assegnazione a mansioni non compatibili con l’invalidità cosa che avrebbe determinato la presuntiva riconduzione dell’assenza prolungata all’handicap.
La Corte di Appello, invece, aveva ritenuto configurata una “discriminazione indiretta” sul disabile poiché il datore di lavoro, nel licenziarlo, aveva applicato il medesimo criterio di superamento del periodo di comporto come al non disabile, trascurando di distinguere tra assenza per malattia e assenza per patologia correlata alla disabilità.
Il datore di lavoro ricorreva in Cassazione con due motivi, sia ritenendo che nessuna discriminazione anche indiretta gli fosse imputabile poiché l’art. 42 del CCNL non prevede alcuna distinzione nell’applicazione del suddetto criterio, sia perché, nonostante, come per legge, avesse preavvisato il lavoratore del superamento già di 335 gg. di assenza sul limite massimo dei 365, nessuna osservazione scritta era pervenuta.
La sentenza della Corte di Cassazione
La Corte, decidendo solo sul primo motivo di ricorso, conferma l’illegittimità del licenziamento per discriminazione indiretta, motivando sulla base della normativa nazionale e sovranazionale (artt. 2 del d.lgs. n.216/2003 e della Dir. CE n.78/2000, la Carta dei Diritti fondamentali della UE e la Carta dei Diritti delle Persone Disabili dell’Onu (CDPD), nonché della giurisprudenza comunitaria. L’art. 42 del CCNL, quindi, deve essere interpretato alla luce del principio di non disparità di trattamento tra le persone sancito dalle suddette norme che, a livello generale e specifico di condizioni di lavoro, si innervano vicendevolmente.
Il secondo motivo di ricorso, poiché riguarda l’accertamento di un fatto, è aspetto di merito cui la Corte, quale Giudice solo della corretta interpretazione ed applicazione delle norme, non ha accesso e, non è esaminabile.
L’art. 2 “Nozione di Discriminazione” della direttiva prevede che «per principio di parità di trattamento si intende l’assenza di qualsiasi discriminazione diretta o indiretta.
Sussiste discriminazione diretta quando una persona, per motivi di religione, sesso, razza, handicap (omissis), è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un’altra in situazione analoga.
Sussiste discriminazione indiretta quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto od un comportamento apparentemente neutri possono mettere (omissis) le persone portatori di un handicap (omissis), in una posizione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone a meno che: i) tale disposizione, criterio o prassi siano oggettivamente giustificati da una finalità legittima ed i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari o ii) nel caso di persone portatrici di handicap, il datore di lavoro (omissis) sia obbligato dalla legislazione nazionale ad adottare misure adeguate conformemente ai principi dell’art. 5 per ovviare agli svantaggi provocati da tale disposizione, criterio o prassi».
La Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea, vietando ogni discriminazione anche
fondata sulla disabilità (art. 21), riconosce il diritto delle persone disabili a beneficiare di misure volte a garantirne l’autonomia nonché l’inserimento sociale e professionale per la piena ed effettiva partecipazione alla vita della comunità (art. 26).
Inoltre, a livello generale, superando, quindi, l’ambito lavorativo di applicazione della Direttiva, l’art. 1 della CDPD dell’Onu, ratificata in Italia con L. n.18/2009 ed approvata dall’UE il 26/11/2009 con effetto verso tutti gli Stati membri, ha lo scopo di «promuovere, proteggere e garantire il pieno ed uguale godimento di tutti i diritti umani e di tutte le libertà fondamentali dei disabili e promuovere il rispetto per la loro intrinseca dignità»
La giurisprudenza della Corte di Giustizia della Comunità Europea, con più pronunce ha, poi, reso effettivo il principio richiamato, dichiarando, in più casi, che un lavoratore disabile è maggiormente esposto al rischio di malattia proprio in ragione della fragilità insita nell’handicap. Pertanto, il licenziamento irrogato con l’applicazione indifferenziata al lavoratore disabile del medesimo criterio di superamento del periodo di comporto previsto per il non disabile, svantaggia il primo poiché lo pone in condizione di accumulare con maggiore possibilità giorni di assenza per malattia e, così, di raggiungere più facilmente il limite massimo di periodo di comporto previsto dalla norma, determinando una disparità di trattamento indirettamente basata sull’handicap. L’applicazione al disabile del medesimo criterio per il calcolo del periodo di comporto trasforma, infatti, un criterio di legge apparentemente neutro in una prassi discriminatoria ponendo il disabile in un situazione di particolare svantaggio rispetto agli altri lavoratori.
Tale condotta datoriale è vietata se non oggettivamente giustificata dal perseguimento di un fine legittimo con mezzo proporzionato allo scopo od in assenza dell’obbligo di adottare le misure previste dalla legislazione nazionale per ovviare agli svantaggi provocati in conformità all’art. 5 della Direttiva “Soluzioni ragionevoli per i disabili”. Nel caso nessuna delle ipotesi previste ai punti
- i) ed ii) dell’art. 2 della Direttiva si è verificata.
Onere semplificato della prova nei Giudizi Antidiscriminatori e ruolo delle parti sociali nel contrasto alla discriminazione
La sentenza della Cassazione è, senz’altro, decisione in cui la cosa giusta secondo diritto si sposa anche con quella secondo il sentito comune.
L’art. 1 della CDPD dell’Onu, dichiarando che «sono persone disabili coloro che presentano menomazioni durature fisiche, mentali, intellettuali o sensoriali che, in iterazione con barriere di diversa natura, possono ostacolare la piena ed effettiva partecipazione nella società su una base di uguaglianza con gli altri», definisce la disabilità come il risultato dell’interazione tra persone con menomazioni e barriere comportamentali ed ambientali che impediscono la loro piena ed effettiva partecipazione sulla base di uguaglianza con gli altri.
La vera uguaglianza, quella sostanziale, sancita, anche dalla nostra Costituzione, non è trattare in maniera uguale tutte le situazioni, ma trattare in modo diverso situazioni diverse per condizioni e
presupposti, affinché, parificate le differenze, sia praticata l’effettiva uguaglianza tra le persone. Altrimenti è facile scivolare in facili derive e scadere nella più semplicistica omologazione cosa che, spesso, in deformazione della realtà, viene scambiata o, peggio, sbandierata per uguaglianza.
Per questa ragione, tutti i giudizi antidiscriminatori volti ad accertare condotte discriminatorie non solo in ambito lavorativo, sono sottoposti ad una disciplina processuale speciale in favore della vittima. La legge, infatti, ha previsto, un procedimento più snello per la necessità di porre fine in modo celere al comportamento vietato (v. d.lgs. n.150 del 2011) e, vista la complessità dell’accertamento della discriminazione, un onere semplificato della prova rispetto al regime ordinario (art. 2729 C.C.). La discriminazione si prova per presunzioni e rileva la situazione di particolare svantaggio in cui è posta una persona rispetto agli altri, restando ininfluente la volontà malevola o colpevole del danneggiante.
L’art. 10 “Tutela giurisdizionale dei diritti” della Dir. CE n.78/2000 (v. art. 4 del d.lgs. n.216/2003), infatti, prevede che il lavoratore discriminato per far valere il proprio diritto in giudizio non debba allegare e provare la condotta datoriale, la discriminazione ed il nesso causa effetto tra i due, ma solo il fattore di rischio cui è esposto, il trattamento ricevuto meno favorevole e la correlazione significativa tra i due elementi, da cui il Giudice, per presunzione, riterrà provato il fatto. Il datore di lavoro non deve allegare e provare di aver praticato la parità di trattamento, ma le circostanze inequivoche che, presuntivamente, in modo preciso, grave e concordante, sono idonee ad escludere ogni imputazione di responsabilità a proprio carico.
Nel contrasto alla discriminazione, inoltre, non va taciuto il ruolo riconosciuto dalla normativa comunitaria e nazionale alle parti sociali: sindacato (art. 13 Dir CE e art. 5 d.lgs. n.216/2003) e datore di lavoro (art. 5 e 13 della Direttiva CE).
L’art. 13 “Dialogo sociale” prevede che gli Stati membri prendano misure per incoraggiare il dialogo delle parti sociali sia per promuovere la parità di trattamento, anche mediante adozione di codici di comportamento o monitoraggio delle prassi, sia per concludere accordi che fissino regole antidiscriminatorie. La piattaforma di rinnovo del CCNL credito, che ci riguarda più da vicino, propone la modifica dell’art. 73 “Iniziative sociali” nell’ottica di una politica sociale sempre più inclusiva a promozione dell’abbattimento delle barriere fisiche e professionali, nonché degli artt. 16 e 17 con la previsione di commissioni aziendali obbligatorie sia di pari opportunità per le donne, non più solo facoltative, che di commissioni per le politiche di inclusione.
L’art. 5 “Legittimazione ad agire” del d.lgs. n.216/2003, poi, riconosce al sindacato la legittimazione ad agire in giudizi antidiscriminatori a tutela dei lavoratori sia nelle vicende singole che collettive.
Infine, ma non ultimo, l’art. 5 “Soluzioni ragionevoli per i disabili” della Dir. CE prevede che «al fine di garantire il rispetto della parità di trattamento, il datore di lavoro debba prendere i provvedimenti appropriati in funzione della situazione concreta, per consentire ai disabili di accedere ad un lavoro, di svolgerlo, di avere una promozione o una formazione, a meno che tali provvedimenti richiedano un onere sproporzionato. L’onere non è sproporzionato se è compensato in modo sufficiente da misure esistenti nel quadro di politica dello Stato Membro a favore dei disabili». L’articolo, tuttavia, come può ben immaginarsi, pone alcune difficoltà di attuazione sia per l’individuazione di adeguate ed efficaci misure politiche sia per i conseguenti concreti obblighi di adozione imposti al datore di lavoro.
L’art. 5 della Dir. CE e la politica occupazionale degli Stati membri a favore dei disabili
La Cassazione, al di là del caso specifico, in modo fulmineo e generale, tocca il tema delle scelte di politica occupazionale degli Stati membri di cui all’art. 5 Dir. CE, fornendo occasione per una riflessione di politica legislativa anche al lettore.
La Cassazione, premettendo il fine legittimo di lotta all’assenteismo perseguito dal datore di lavoro in presenza di assenze superiori al periodo di comporto, osserva, tuttavia, che, in base all’art. 2 della Direttiva, il licenziamento del disabile è discriminatorio indirettamente in presenza delle condizioni indicate se non sia proporzionato allo scopo legittimo e/o il datore di lavoro non sia obbligato dalla legislazione nazionale ad adottare le misure previste dall’art. 5 per ovviare allo svantaggio provocato.
Il datore di lavoro, quindi, nella scelta di licenziamento del disabile si troverebbe a valutare se il
fine di contrasto all’assenteismo sia proporzionato al mezzo scelto visto, da una parte, la fragilità del disabile e considerato, dall’altra, le difficoltà di reinserimento nel mercato del lavoro in base alle misure legislative previste a protezione e l’obbligo di adozione a proprio carico. Si verrebbe, così, a trovare in difficoltà nel perseguimento del suo fine qualora la normativa nazionale non prevedesse in concreto le misure indicate nell’art. 5 e richiamate al punto ii) dell’art. 2 della Dir Ce.
Al di là di voler assumere le difese del datore di lavoro, il punto, quindi, non è bilanciare l’interesse alla lotta all’assenteismo con quello alla protezione del lavoratore disabile al momento della scelta di licenziamento e/o al momento giudiziale della valutazione della sua legittimità, quanto, piuttosto, a monte, a livello politico, bilanciare gli interessi e finalità di politica occupazionale con l’interesse di protezione del disabile mediante una corretta scelta legislativa capace di individuare le soluzioni ragionevoli di cui all’art. 5 della Direttiva, ovvero misure adeguate di politica sociale volte a favorire l’accesso al lavoro del disabile.
Permettendoci, quindi, di esplicitare il pensiero del Giudice, la previsione e l’adozione di soluzioni ragionevoli potrebbe consentire un diverso confine tra ciò che è legittimamente consentito e non al datore di lavoro, modificando così il perimetro di ciò che è valido o nullo in forza del punto ii) dell’art. 2 della Direttiva. Un più facilitato accesso al lavoro per i disabili, cosa che, di fatto, oggi non è, consentirebbe al datore di lavoro, anche in presenza di situazioni come il caso in esame, di trovare soluzioni diverse dal licenziamento o di licenziare secondo legge in modo non discriminatorio per la presenza effettiva di quelle misure adeguate volte ad ovviare la situazione di svantaggio provocata.
Di recente, il D.L. n.48/2023 “Misure urgenti per l’inclusione sociale ed accesso al mercato del lavoro” (cd. Decreto lavoro), convertito in L. n.85 del 3 Luglio 2023, tra i molteplici temi, nel capo III (Ulteriori interventi urgenti in materia di politiche sociali del lavoro) ha previsto una misura per i disabili. L’art. 28 “Incentivi per il lavoro di persone disabili”, dispone incentivi a favore di ONG, ETS ed associazioni di volontariato per le assunzioni di disabili di anni inferiori ai 35 nel periodo Agosto 2022-Dicembre 2023.
Irene Gazzi