Tribunale di Napoli – sez. lavoro – sentenza n. 6968 del 27/03/2023

Il danno patrimoniale da demansionamento e dequalifica (cd. danno professionale). Il demansionamento è un illecito civile permanente, pertanto, la prescrizione del diritto del lavoratore al risarcimento dei danni può decorrere solo dalla cessazione della condotta lesiva datoriale.
La sentenza in commento dichiara accertato il demansionamento di un lavoratore a seguito di una cessione di ramo d’azienda, condannando il datore di lavoro al risarcimento del cd. “danno professionale”, ovvero il danno patrimoniale da demansionamento e dequalifica lesivo della professionalità lavorativa.
Il danno causato dalla modifica in negativo delle mansioni del lavoratore addetto a funzioni di qualità inferiori rispetto alle originarie previste dal livello professionale di inquadramento del CCNL, poiché, per sua stessa natura, investe il lavoratore sotto più aspetti, ha natura patrimoniale se lede il patrimonio economico del lavoratore e non patrimoniale se lede la sua persona, presentando, poi, un ampio ventaglio di casistiche all’interno dei due generi. Il lavoro, infatti, poiché coinvolge varie energie dell’uomo, non solo fisiche ma anche psichiche (e spirituali), non si riduce da parte del datore di lavoro alla mera erogazione di uno stipendio a fronte della prestazione lavorativa.
Il danno da “demansionamento patrimoniale” consiste nel pregiudizio allo sviluppo della professionalità ed identità lavorativa che si verifica quando, con l’oggettivo depauperamento del bagaglio culturale e graduale appannamento della professionalità non accresciuta nelle capacità proprie ed originarie, viene leso il patrimonio professionale, formativo ed esperienziale acquisito del dipendente, espressione della personalità umana e, pertanto, tutelato dalla Costituzione. Tale pregiudizio che spiega effetti anche sull’impiego futuro della professionalità, o svilisce e frustra ragionevoli aspettative di progressione professionale o si traduce anche in perdita di future possibilità migliorative di impiego (cd. perdita di chance), incide sul patrimonio economico del lavoratore.
Il danno da “demansionamento non patrimoniale”, invece, produce un danno alla persona, graduabile da minore a maggiore gravità in: danno morale (dolore interiore o sofferenza morale), danno esistenziale (alterazione delle abitudini di vita e assetti relazionali nella realizzazione della personalità nel mondo esterno) e danno biologico (lesione dell’integrità psico-fisica medicalmente accertabile che altera abitudini e assetti relazionali inducendo la persona a scelte diverse nell’espressione e realizzazione della personalità nel mondo esterno).
La condotta di demansionamento, integrata a prescindere dalla specifica intenzionalità datoriale di declassamento e svilimento dei compiti del dipendente, può realizzarsi, come nel caso in esame, anche con la dequalifica, cioè con il progressivo svuotamento e svilimento delle mansioni originariamente assegnate al lavoratore, deprivate, di fatto, delle qualità e caratteristiche tipiche dell’inquadramento, verificabile dal raffronto tra la tipologia e qualità delle funzioni svolte in concreto dal lavoratore e quanto indicato nel livello di inquadramento.
Il caso:
Dal 01/06/2010, a seguito di una riorganizzazione aziendale, il reparto unico di manutenzione, collaudo ed attivazione degli apparati di una società di telecomunicazioni, cui era collocato un dipendente tecnico specializzato del V livello del CCNL, veniva scorporato in due distinti e separati: uno per la manutenzione, cui veniva assegnato il lavoratore e l’altro per il collaudo e le installazioni di nuovi apparati, mansioni richiedenti un costante aggiornamento professionale indispensabile in un settore caratterizzato da continue innovazioni tecnologiche e rapide obsolescenze di professionalità.
Dal 01/07/2011, il solo reparto della manutenzione, veniva, poi, ceduto quale ramo d’azienda ad altra società di telecomunicazioni cosa che implicava la modifica dello svolgimento della mansione di manutenzione che, prima della cessione, era svolta con ampia autonomia nella decisione di esecuzione dell’intervento da compiersi a seguito dei work orders ricevuti e, dopo la cessione, invece, era vincolata alla pedissequa osservanza di questi senza possibilità di operare fuori dalle istruzioni ricevute.
Il dipendente ricorreva, così, al Tribunale per chiedere al nuovo datore di lavoro i “danni patrimoniali e non patrimoniali” causati dal demansionamento fino al 30/11/2016 (data di cessazione della condotta datoriale lesiva) ma con decorrenza sin dal 01/06/2010, data di scorporo del reparto unico di manutenzione e collaudo sotto il precedente datore di lavoro, atteso che, seppur solo a seguito della cessione di ramo le mansioni fossero state deprivate in via definitiva della qualità di autonomia e decisionalità previste dal livello di inquadramento, già da quella data la funzione di collaudo ed installazione non veniva più svolta, con perdita sia dei premi economici collegati al raggiungimento degli obbiettivi previsti solo per questa attività, che del know how maturato negli anni di servizio, anche, soprattutto, per la mancata fruizione dei corsi di aggiornamento previsti per queste mansioni.
Il datore di lavoro si difendeva sostenendo la prescrizione del diritto del lavoratore al risarcimento dei danni e chiamando in giudizio genericamente- senza cioè rivolgere specifica domanda di garanzia- anche il datore di lavoro cedente il ramo d’azienda, il quale anch’esso eccepiva la prescrizione del diritto.
La decisione del Tribunale di Napoli:
Il Giudice, secondo la giurisprudenza costante che, in conformità ai valori costituzionali, riconosce il diritto del lavoratore all’accrescimento delle competenze professionali unitamente alla non dispersione di quelle acquisite, accerta la dequalifica del lavoratore sulla base delle prove testimoniali dei colleghi e, poiché non maturata la prescrizione del diritto al risarcimento dei danni, condanna il datore di lavoro al pagamento dei danni patrimoniali sebbene solo dalla cessione di ramo d’azienda. Infatti, il ricorrente ha provato solo i fatti della dequalifica, consistenti nello svuotamento delle mansioni rispetto al livello di inquadramento del CCNL di appartenenza e il danno professionale economico dovuto all’impoverimento della professionalità, ma non quello non patrimoniale, che non sussiste in via automatica (in re ipsa) per il sol fatto del demansionamento. Poichè, poi, il datore di lavoro non ha rivolto alcuna domanda di garanzia alla società cedente, precedente datore di lavoro, i danni sono riconosciuti dalla cessione di ramo di cui solo è legittimato a rispondere, ma non per il periodo anteriore.
Risulta provato che con la cessione di ramo a causa del mutamento della modalità esecutiva della mansione, ovvero della sua qualità da autonoma a pedissequa esecuzione degli ordini, di fatto, è stata sottratta al lavoratore ogni analisi diagnostica del funzionamento degli apparati e ogni decisione dei rimedi da approntare nell’opera di manutenzione. Sono, quindi, venuti meno l’autonomia e la decisionalità così come lo svolgimento di compiti specialistici e di elevata tecnicalità, entrambi qualificanti le mansioni del V livello CCNL in cui è inquadrato il ricorrente in cui rientrano quei “lavoratori che, in possesso di capacità professionali e gestionali correlate ad elevate conoscenze specialistiche, svolgono funzioni per il cui espletamento è richiesta adeguata autonomia e decisionalità (omissis), ovvero con lo svolgimento di compiti specialistici di elevata tecnicalità”.
L’impossibilità di discostarsi dai work orders ha integrato il demansionamento del lavoratore per l’oggettiva adibizione a mansioni dequalificanti rispetto alle originarie poiché deprivate dell’autonomia e decisionalità previste dall’inquadramento, frustrando abilità e competenze. Inoltre, anche la venuta meno dei corsi di aggiornamento professionale in precedenza seguiti per lo svolgimento delle funzioni di collaudo ed installazione lede la professionalità del lavoratore e, unitamente alla dequalifica, integra il danno professionale patrimoniale consistente nell’appannamento della professionalità anche per la più difficile sua futura utilizzazione a causa dell’attuale sottoutilizzazione rispetto a competenze e corredo di esperienza maturate ed acquisite.
Il protrarsi nel tempo del demansionamento, poi, non costituisce acquiescenza del lavoratore allo stato imposto. L’atto illegittimo del demansionamento, infatti, è un illecito civile permanente e non istantaneo. L’illecito istantaneo è caratterizzato da una azione lesiva che si esaurisce in un lasso di tempo definito, seppur con permanenza di effetti nel tempo, e la prescrizione del diritto al risarcimento decorre dalla prima manifestazione del danno. L’illecito permanente, invece, è caratterizzato da una condotta continuata nel tempo con costante formazione dell’evento dannoso in ogni momento della condotta che lo produce così che la prescrizione ricomincia a decorrere ogni giorno successivo a quello in cui il danno si è manifestato per la prima volta fino a cessazione della condotta dannosa. Quindi, fin tanto perduri il comportamento datoriale lesivo, non decorre il termine di prescrizione di dieci anni del diritto del lavoratore al risarcimento dei danni. La categoria di “illecito civile”, identificativa, propriamente, della sola condotta dannosa extracontrattuale, cioè quella prodotta in assenza di un contratto tra l’autore del comportamento lesivo ed il danneggiato e che prevede prescrizione del diritto in cinque anni, è estesa al demansionamento che si verifica nel contratto di lavoro tra datore e lavoratore con conseguente applicazione del termine ordinario di prescrizione decennale del diritto al risarcimento dei danni.
Considerazioni finali:
La “medesima categoria legale” dell’art. 2103 C.C. così come modificato dal D.lgs. 81/2015 (Jobs act) interpretata dalla giurisprudenza secondo il parametro dell’equivalenza delle mansioni.
Questa sentenza, in linea con la giurisprudenza costante, fonda il diritto al risarcimento dei danni da demansionamento sulla base del principio di equivalenza delle mansioni elaborato sul dato normativo dell’art. 2103 C.C. (mansioni del lavoratore) antecedente la modifica del D.lgs. 81/2015. Come noto, prima della riforma, l’equivalenza delle mansioni costituiva limite espresso invalicabile alla legittimità del potere datoriale di assegnazione del lavoratore a mansioni inferiori. La riforma, eliminando il suddetto riferimento, ha consentito il demansionamento in caso di modifica degli assetti organizzativi aziendali purché le nuove mansioni rientrino nella medesima categoria legale.
Secondo la giurisprudenza, tuttavia, la medesima categoria legale, ovvero l’inquadramento di livello professionale, deve essere rispettato non solo formalmente, ovvero con il mantenimento dello stesso inquadramento esteriore, ma anche sostanzialmente, cioè in concreto, con il non azzeramento delle qualità intrinseche delle mansioni svolte di fatto rispetto a quanto previsto dall’inquadramento. Se pertanto, come nel caso, fermo il mantenimento del V livello professionale, le mansioni lavorative sono di fatto svuotate e svilite rispetto a quelle descritte nel livello di CCNL, il datore di lavoro tiene una condotta illegittima in violazione dell’art. 2103 C.C., con obbligo del risarcimento dei danni da demansionamento patrimoniali e/o non patrimoniali se sussistenti e provati. E, si aggiunge, anche all’adibizione a mansioni conformi al livello, domanda, nel nostro caso, non rivolta al Giudice, dato che, al momento dell’avvio del ricorso, era cessata la condotta lesiva.
Con l’interpretazione della “medesima categoria legale” in aderenza ai principi costituzionali di uguaglianza sostanziale, a salvaguardia del patrimonio professionale e bagaglio esperienziale maturato dal lavoratore, la giurisprudenza dà, così, effettività al suo diritto di essere utilizzato secondo il proprio livello di inquadramento, valorizzando il parametro dell’equivalenza contro la deriva di un’interpretazione letterale e vuota della medesima categoria legale dell’art. 2103 C.C.
La prova del danno da demansionamento, quale esso sia, patrimoniale o non, può essere data con qualunque mezzo anche testimoniale e per presunzioni, fermo sempre l’onere del ricorrente di allegare e provare i fatti lesivi, l’evento dannoso ed il nesso causale tra i due.
Così come la sua liquidazione, vista la difficoltà di monetizzazione, può essere disposta dal Giudice anche in via equitativa secondo criteri quali la durata, le caratteristiche e la gravità della forzata situazione di demansionamento, nonché il tipo ed obsolescenza della professionalità colpita (le competenze tecniche e la loro evoluzione), la qualità e quantità dell’attività pregressa, ed in generale tutte le circostanze del caso concreto che permettano una più precisa individuazione e personalizzazione del danno come ad esempio anche la sordità aziendale alle richieste del lavoratore di svolgere un’attività lavorativa non in violazione sostanziale della propria professionalità ed inquadramento e l’inerzia del datore ad apporre correttivi.
A titolo di completezza e miglior comprensione della vicenda, il Tribunale di Napoli, in separate cause, è stato chiamato a pronunciarsi sull’impugnativa della stessa cessione di ramo aziendale nonché sulla richiesta dei danni anche di altri dipendenti della medesima azienda che lamentavano identici fatti di demansionamento. Questo Giudice ha deciso in conformità anche alle altre pronunce sulla richiesta di risarcimento danni.
La cessione di ramo, come sa bene chi, volente o nolente, vi è inciampato, può favorire demansionamenti tanto quanto una riorganizzazione aziendale che, spesso, la precede e prepara, come si evince, tra le righe, anche da questa vicenda peraltro a prescindere, e per questioni processuali, dal mancato riconoscimento del diritto ai danni dalla data di scorporo dell’unico reparto.
La pratica delle cessioni, peggio, se ripetuta, dello stesso ramo d’azienda, può nel tempo incancrenire l’evento lesivo prodotto dal demansionamento con svantaggio del lavoratore che ne vede aggravati gli effetti e beneficio del datore di lavoro a causa della possibile assuefazione nei dipendenti spettatori non coinvolti o, perfino, negli stessi lavoratori interessati.
Conforta, quindi, la giurisprudenza sul demansionamento quale illecito civile permanente e la tutela della professionalità unitamente al diritto allo sviluppo e formazione professionale.
Il lavoratore, pur nel disagio personale e professionale per la penosità nell’espletamento delle mansioni dequalificate, resta comunque obbligato ad eseguire la prestazione lavorativa, salvo ricorra al Giudice per ottenere la riassegnazione a mansioni confacenti al livello, oltre il diritto ai danni la cui prescrizione non decorre fino a che perduri la condotta lesiva.
Dovremmo, tuttavia però, tutti mantenere alta l’attenzione sui possibili impatti negativi di siffatte operazioni, nonché, soprattutto, interrogarci, se il diritto alla formazione, quale accrescimento del corredo di nozioni di esperienza e perizia del lavoratore, possa essere soddisfatto con quell’aggiornamento professionale spesso massicciamente proposto in azienda e, purtroppo, anche frettolosamente fruito dal dipendente o, ancora, con la tanto nominata pratica di riqualificazione (reskilling).
Irene Gazzi